Che Il piccolo Principe sia opera di straordinaria fantasia e bellezza, tra le più tradotte al mondo, è arcinoto. Così come è noto che il suo autore Antoine de Saint Exupéry ha indirizzato il suo straordinario dardo dritto al cuore del bambino che è in ciascuno di noi. Diviene così facile raccogliere questa sua eccezionale sfida al “gioco” per cui i “grandi” si lasciano andare alla dolce regressione verso la fanciullezza e i “piccoli” all’ebrezza di ostentare saggezze da adulti.
L’idea di una traduzione in dialetto barese mi viene da un Angelo di nome Angela che appare in Teatro e lancia la sua sfida di un mattino di mezza estate.
Perché no. Mi sono già divertito altre volte con ideazioni, narrazioni, traduzioni e tradimenti nel dialetto barese.
Il mio Angelo, le cui origini terrene devono essere state baresi, concorda con me sulla utilità di usare il dialetto vivente, abbandonando forme e termini arcaici.
Come ogni lingua anche il dialetto si evolve. Come ogni dialetto anche il nostro stimola dibattiti su come scriverlo, per la mancanza di poche, indispensabili, chiare, condivise regole, e per la testardaggine di solisti saccenti. Se il fine ultimo è quello di preservare un futuro al nostro dialetto, allora bisogna parlarlo e parlarlo, e bisogna scriverlo nel modo più semplice e leggibile.
Ho sperimentato modi diversi nella scrittura. I miei interlocutori privilegiati, cioè i lettori, mi hanno convinto a sperimentare ancora. E dunque nel mio dialetto scritto reintrodurrò la j per ottenere, ad esempio, quell’inconfondibile suono gutturale barese nel dire “ io ” cioè “ ji ” e manterrò le e, che sono mute nelle finali e quando non sono toniche, e userò gli accenti e gli apostrofi per semplificare la lettura.
A proposito quando l’ho riletto ad alta voce in dialetto, U prengepine mi ha strabiliato!
Vito Signorile
Gelsorosso Edizioni – 3a ristampa
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